La scorsa primavera il Covid-19 ha bloccato temporaneamente le nostre attività (e purtroppo quelle di tutti).
Dopo alcuni mesi difficili, tuttavia, anche la nostra Associazione ha ufficialmente riaperto i battenti, dando il via lo scorso Giovedì 10 Settembre al nuovo Corso di Fotografia di Base autunnale.
Vi raccontiamo, brevemente, come sono andate le cose al nostro rientro.
Un Autunno particolare
Assolutamente si! Questo, come dicevamo prima, è un Autunno molto particolare, ed è per questa ragione che ripartiamo con i nostri corsi in una forma leggermente diversa rispetto alle edizioni precedenti.
Ci siamo riuniti, abbiamo discusso lungamente e siamo stati concordi nel decidere che, compatibilmente con le regole per limitare la diffusione dell’epidemia da Covid-19, la programmazione della nostra attività dovesse andare avanti.
Per cui: mascherine obbligatorie, spazi contingentati e distanziamento sociale sono state le nostre parole d’ordine.
L’arte e la fotografia sono infatti delle passioni meravigliose da coltivare: ma il rispetto delle regole (e della salute) per la nostra Associazione viene assolutamente prima di qualsiasi altra cosa.
I nostridocenti, DanieleMusso e Stefania Stramondo, come ogni anno, hanno dato il benvenuto ai nuovi allievi.
E anzi, soprattutto in un momento così particolare, l’associazione ha cercato di fare uno sforzo ulteriore per accogliere tutti con il consueto calore che accompagna l’ingresso dei nuovi membri nella grande Famiglia di ImagoZero.
Ma tra le conferme che abbiamo avuto modo di evidenziare quest’anno ci sono anche delle interessanti novità per tutti i corsisti.
La tecnologia: nostra “amica speciale” di quest’anno
Abbiamo infatti dovuto e voluto reinventarci ed “adeguarci” a quella che definiamo, simpaticamente, la “Dittatura della Tecnologia”.
Scherzi a parte l’aiuto della tecnologia, come durante il periodo di lockdown, quest’anno si dimostrerà un portentoso alleato per portare la scintilla dell’amore per la Fotografia anche tra chi non è fisicamente “in praesentia” all’interno della nostra Sede.
Infatti una parte dei nostri allievi avrà l’opportunità, per la prima volta, di seguire in streaming il nostro Corso Base di Fotografia.
Quindi alcuni dei nostri discenti hanno seguito la nostra lezione di apertura dietro lo schermo del proprio dispositivo: tutto questo però non ha inficiato l’entusiasmo che mettiamo nel veicolare il nostro messaggio, che speriamo sia arrivato ugualmente forte e chiaro a chi lo ha ricevuto.
Ad assicurarsi, dietro la “consolle“, che tutto filasse liscio come l’olio è stata la nostra Mariarita Zappalà, che si è dimostrata ancora una volta, come tutti i membri del team, parte fondamentale della “macchina organizzativa”.
Sosteniamo da sempre che preferiamo il contatto fisico con i nostri allievi: ma le contingenze attuali ci hanno portato a fare questa scelta, che affrontiamo con entusiasmo come un’opportunità, sicuri che comunque non fermerà la nostra voglia di farvi avere fame di fotografia e di cultura fotografica.
Eccoci qui dunque, pronti come sempre, a lanciarci in questa nuova avventura!
Il nostro augurio è sempre quello che facciamo ogni anno: buona luce a tutti.
E che quest’anno, soprattutto, possa almeno in parte illuminare questo periodo così oscuro.
Le fotografie della serata sono state scattate dalla nostra socia Gabriella Ricifari.
“Ricorda di guardare in alto alle stelle, e non ai tuoi piedi. Cerca di dare un senso a quello che vedi e chiediti quello che fa vivere l’Universo. Sii curioso.“ Stephen Hawking
L’Estate dell’Associazione ImagoZero, nonostante il periodo particolare, non si ferma. Anzi, armati di macchina fotografica e nel rispetto delle norme di sicurezza attuali, si torna finalmente a scattare in compagnia portando il mondo della fotografia sotto le stelle.
In uno scenario decisamente suggestivo: le notti “magiche” e grondanti di stelle della zona di Siracusa.
L’ImagoPhotoWalk del 19 Agosto 2020, infatti, è dedicato alla fotografia della “Milky Way” ed alla tecnica del Light Painting.
E quale migliore data per ricominciare, se non quella del 19 Agosto, che celebra la Giornata mondiale della fotografia 2020?
Under The Milky Way
Una passeggiata fotografica per l’appunto “Under The Milky Way” (citando una canzone dei Church), con il naso all’insù. A scrutare le bellezze e le emozioni della notte che solo un cielo stellato può regalare.
La fase organizzativa ha visto i nostri fotoamatori alle prese con la preparazione all’immersione nel buio.
Armati dell’attrezzatura necessaria (il treppiedi e le torce luminose sono d’obbligo) i Soci di ImagoZero sprofondano nella notte, mettendosi alla prova con le prodezze della fotografia “astronomica”.
I nostri soci si sono cimentati nell’esercizio portando a casa scatti molto interessanti.
Perché fotografare la Via Lattea è semplice se si seguono alcune regole base: cercare la location adatta, al riparo dall’inquinamento luminoso, riprendere la giusta porzione di cielo e ovviamente conoscere e scegliere le corrette impostazioni di scatto.
La scarsa luminosità costringe ad usare lunghe esposizioni e diaframmi aperti, ma una volta fatte le scelte giuste, un pò di pratica e di esperienza saranno gli ingredienti fondamentali per portare a casa un risultato che ci sorprenderà!
Il Light Painting
La notte è un’ottima occasione anche per sperimentare e giocare con la luce e cimentarsi in un’altra interessante e (divertente) tecnica: quella del Light Painting.
Se fotografia significa “scrivere con la luce” il Light Painting è senza dubbio una delle espressioni più creative di questo concetto.
Qui l’ingrediente fondamentale diventa la torcia luminosa (o comunque qualsiasi fonte che sia in grado di creare un’illuminazione artificiale, come un accendino).
Anche perché in questo caso il vero protagonista di questa tecnica è proprio il fotografo: a lui infatti spetta in primo luogo la scelta delle sorgenti luminose che dovranno dare vita all’immagine; ed in seguito “dipingere” con le luci evocando delle figure luminose che spesso generano effetti davvero sorprendenti.
Dunque luci, stelle e macchina fotografica: cosa si può desiderare di più dalla vita per chi rientra nell’ampio universo del fotoamatore?
Questa è una delle tante esperienze che negli ultimi anni la nostra associazione ha riproposto per fare innamorare chi ci segue dell’arte fotografica: e scattare una foto al cielo significa anche cercare di esprimere l’Infinito dentro di noi attraverso la nostra cara “macchinetta”.
Il video di sintesi di questa magnifica esperienza
Qui di seguito potete guardare un video molto divertente, firmato dalla nostra socia Mariarita Zappalà, che ringraziamo per riprese e montaggio, nel quale ha registrato alcuni momenti di preparazione al nostro ImagoPhotoWalk.
Buona visione e, come sempre: alla prossima iniziativa fotografica!
Ringraziamo Gabriella Ricifari e Mariarita Zappalà per le fotografie della serata.
E’ online sul canale YouTube di ImagoZero il video integrale del Photo Talk di Venerdì 17 Aprile scorso con lo street photographer Davide Bergamini!
Ringraziamo di cuore Davide per la disponibilità e per aver condiviso con noi il suo progetto ” Sixty Minutes”, raccontandoci il suo personale modo di vivere la fotografia come un appuntamento quotidiano, proprio durante i 60 minuti di pausa pranzo.
“Sixty Minutes” è diventato anche una pubblicazione, che potrete acquistare su Amazon o contattando @davidebgm in Direct Message su Instagram!
Elliott Erwitt Milano. MUDEC – Museo Delle Culture. via Tortona 56 mudec.it Fino al 15 Marzo 2020
“Se le mie immagini aiutano qualcuno a vedere le cose in un certo modo, probabilmente è a guardare le cose serie con più leggerezza. Tutto è serio ma può anche non esserlo.”
Se vi trovate a Milano entro il 15 Marzo vi consigliamo di non perdere la mostra “Family” di Elliott Erwitt al Mudec Photo. Si tratta di 60 scatti in bianco e nero attraverso i quali Elliott con il suo sguardo ironico e romantico, potente e leggero indaga il tema universale e totalizzante della famiglia.
Del resto la famiglia ha rivestito un ruolo di primo piano per l’artista che ha avuto quattro matrimoni, sei figli e un numero di nipoti e pronipoti in continuo divenire. Elliott ci conduce da istanti di vita dei potenti della terra, come l’immagine di Jackie al funerale di Kennedy, a momenti intimi e romantici come lo scatto di Robert Frank che balla in cucina con la moglie, fino a scene privatissime e intense come la celebre foto della bambina neonata sul letto, che poi è Ellen, la sua primogenita.
La selezione operata per Mudec Photo alterna immagini ironiche a spaccati sociali, matrimoni nudisti, famiglie allargate o molto singolari a significare che possiamo essere la famiglia che scegliamo e vivere stati d’animo simili, a prescindere dall’importanza del ruolo che si ricopre nel mondo.
“È impossibile trovare le parole per descrivere ciò che è necessario a coloro che non sanno ciò che significa l’orrore.”
Colonnello Walter E.
Kurtz, Apocalypse Now (Francis Ford Coppola, 1979)
A volte è difficile raccontare orrore e disperazione, ma
anche desiderio e rivalsa con le sole parole. E ovviamente in questi casi vale
il classico adagio per cui “un’immagine
racconta meglio di mille parole”.
Ciò nonostante non è da tutti riuscire a trasmettere il
senso assoluto di stati d’animo così complessi nemmeno attraverso le immagini.
E per questo gli autori di fotoreportage che colpiscono
contemporaneamente il cuore e lo stomaco sono forse oggi quelli che meglio ci
stanno raccontando un mondo in continuo e febbrile cambiamento.
Tra tutti, negli ultimi anni, spicca un giovane fotoreporter
che, dopo la laurea in chimica, ha scelto il mondo fotografico per regalare
agli altri la sua personale visione del mondo.
Parliamo del fotografo siciliano Alessio Mamo, che avremo il piacere di ospitare alla prima edizione di PHŌTÓS, manifestazione pubblica per chi vive e condivide la Passione per l’Arte Fotografica. (Maggiori dettagli sul nostro evento sono disponibili a questo link).
Occhi che scrutano
drammi sociali e quotidianità
Dopo la laurea in fotografia all’Istituto Europeo di Design (IED) di Roma, Mamo ha subito realizzato quale fosse la sua mission nel
mondo fotografico: raccontare la
quotidianità del dramma di ogni singolo essere umano.
Ed è per questo che ha scelto il fotogiornalismo come suo
campo prediletto per la sua specifica narrazione visiva: attualmente ricopre la
figura di freelance per la Photo Agency
indipendente Redux Pictures.
Ma dove si sofferma nello specifico lo sguardo del nostro fotogiornalista
conterraneo? Alessio Mamo negli ultimi anni è stato una delle voci che meglio
ha raccontato la crisi umanitaria e migratoria
globale.
Immortalando con grande abilità in maniera particolare gli
effetti di questa immane crisi sui soggetti più deboli e indifesi.
Su quelli che non hanno possibilità di difendersi da
efferatezza e violenza, con una visione partecipata che non sfocia però mai nel
mero patetismo.
Ma non solo. Sempre più negli ultimi anni Mamo ci sta anche
raccontando gli effetti visivamente ancora più plateali e debordanti della
devastazione delle guerre in Medio Oriente.
Dove anche qui sono gli indifesi, le vittime della “Storia”,
in una concezione che assomiglia molto a quella dell’omonimo romanzo-verità di Elsa Morante.
Il riconoscimento
ottenuto al World Press Photo
Come coronamento di una carriera decennale, dedicata
interamente a una concezione etica e partecipata del fotogiornalismo, il
fotografo siciliano ha vinto il secondo premio al World
Press Photo 2018, per la categoria People,
sezione “Singles”.
La foto, dal titolo Manal, War Portraits (2017) descrive il dramma inimmaginabile di una ragazza di 11 anni che, a causa di un esplosione missilistica nei pressi di Kirkuk in Iraq, è rimasta sfigurata nel volto e nell’anima.
La giovane infatti è costretta a indossare una maschera per
diverse ore al giorno, così da proteggere il proprio viso deturpato (e
ricostruito a seguito di numerosi interventi chirurgici) dalla luce del sole.
Una cosa che a noi appare tanto naturale e scontata per Manal si è trasformata in qualcosa da
cui doversi proteggere: e questo è forse il dramma più grande del
capovolgimento globale scatenato da una guerra.
Tutto scorre
E in un mondo che è trascinato da un continuo e sfrenato πάντα
ῥεῖ immaginifico a volte persino una immagine di forte denuncia, agli occhi
degli stolti, rischia di trasformarsi in mera speculazione.
Uno dei recenti progetti del fotografo siciliano ambientati
in India, Dreaming Food, ha
scatenato sui Social l’anno scorso una serie di polemiche relative a una sorta
di “sfruttamento visivo della povertà”.
Le foto sono frutto di una serie concettuale (condotta con
un’associazione no profit locale e
che non ha ritratto per scelta soggetti né malnutriti né malati) che vuole
contrapporre lo scandalo inaccettabile dello spreco di cibo e di consumi associato
a periodi come quello del Natale Occidentale, all’estrema miseria delle zone di
povertà.
Ovviamente i personaggi pubblici dall’indignazione facile (e
a comando) hanno subito etichettato queste foto come pretestuose e strumentali.
(Foto per cui l’autore si è addirittura scusato nel caso fossero risultate
offensive per qualcuno).
Eppure è forse proprio questo il senso della denuncia:
scuotere, riflettere e spingere all’azione.
Probabilmente è questa la lezione più grande che ci ha
regalato Mamo con queste ed altre foto: anche se noi ci troviamo fermi nella
nostra stanza a guardare la TV, il monitor di PC o il nostro smartphone, il
mondo là fuori continua a muoversi.
E noi dobbiamo scegliere se essere spettatori o agire.
Un monito alla riflessione che ci impone di guardare il
mondo da altre angolazioni e con un diverso spirito.
E in un mondo che ogni giorno assomiglia sempre meno a quello del giorno precedente raccontare tutto questo per frenare la schizofrenia delle immagini, consentitelo, non è cosa da poco.
“La fotografia è un mezzo di espressione potente. Usata adeguatamente è di grande utilità per il miglioramento e la comprensione. Usata male ha causato e causerà molti guai… Il fotografo ha la responsabilità del suo lavoro e degli effetti che ne derivano… La fotografia per me non è semplicemente un’occupazione. Portando la macchina fotografica io porto una fiaccola…”
(W. Eugene Smith)
Il reportage è senz’altro uno dei generi fotografici più veri e più sentiti. Ma allo stesso tempo può essere un’arma a doppio taglio, poiché è la forma di “ritratto di luce” più realistico e quanto mai lontano da qualsiasi tipo di “filtro”.
La verità sotto forma di immagine, dunque. Ciò che l’occhio ritrae sarà senza dubbio ciò che la macchina ha inquadrato: e dunque forse questo rende il reportage ciò che più si avvicina all’obiettività.
Questo genere ha visto arruolare nelle sue file tantissimi Grandi Maestri della fotografia, che hanno ritratto spesso in maniera impietosa, ma anche con altrettanta umanità, scenari di guerra, devastazioni, carestie ma anche realtà emarginate delle grandi metropoli.
Basti pensare a Robert Capa e la Seconda Guerra Mondiale; o a Sebastião Salgado e le sue foto della povertà nel Corno d’Africa e della devastazione delle guerre nell’Ex Jugoslavia; o ancora alle iconiche foto di Nick Út in Vietnam o di Steve McCurry in Afghanistan.
Un oceano sterminato di immagini che ci ha restituito, in modo più o meno sconvolgente l’orrore, ma anche la speranza, proveniente da qualsiasi fazzoletto del mondo.
Qual è, nel 2019, alla fine del secondo decennio del XXI secolo, l’eredità di questi grandi fotoreporter? Chi sono i grandi eredi di questa immane tradizione? Chi si occupa di tramandare questa grande eredità alla popolazione mondiale?
La fiaccola del World Press Photo
Rifacendoci alla bella immagine della citazione di W. Eugene Smith è lecito chiedersi chi stia portando avanti nella Storia questa suggestiva fiaccola, per illuminare di luce l’oscurità dei luoghi celati dall’oblio dell’indifferenza quotidiana.
Ad assumersi questa responsabilità è la fondazione olandese World Press Photo, che rappresenta l’organizzatrice del più grande e più prestigioso concorso di fotogiornalismo mondiale, vale a dire i World Press Photo Awards.
Una sorta di Premio Oscar del fotoreportage mondiale, tanto per intenderci.
La cerimonia finale di premiazione assegna riconoscimenti ai migliori fotoreporter del mondo dalla sua prima edizione, datata nel lontano 1955.
Ed il premio più ambito è senza dubbio quello della World Press Photo of the Year, che in sintesi, nelle intenzioni degli organizzatori deve essere non solo
“[…] la sintesi fotogiornalistica dell’anno, ma rappresenta un problema, situazione o evento di grande importanza giornalistica, e fa questo in un modo che dimostra un eccezionale livello di percezione visiva e creatività.”
Un premio, pertanto, che ha l’obiettivo di rendere pervasiva la comunicazione fotografica e di riuscire ad avvicinare il grande pubblico al mondo del photo reportage.
Tra i grandi vincitori del passato non si possono non citare almeno il fotografo britannico Don McCullin, che nel 1964 si aggiudica il primo premio con una foto dedicata alla scottante Questione di Cipro.
O il già sopra citato Nick Út, che nel 1975 ritrae la giovane Phan Thị Kim Phúc e altri bambini che fuggono con gravi ustioni causate da napalm (foto che gli varrà anche il Premio Pulitzer).
O anche gli italiani Francesco Zizola e Davide Masturzo, trionfatori rispettivamente nel 1997 e nel 2010 con istantanee sulla guerra civile in Angola e la Dittatura in Iran.
Italia che comunque si è sempre distinta anche nelle altre sezioni: basti pensare alla vittoria del fotografo siciliano Alessio Mamo per la categoria People nel 2018.
Dunque una delle kermesse più importanti della fotografia mondiale: e che riesce a portare avanti egregiamente la sua mission.
Una fiaccola nell’oscurità: sarà questa lanterna a continuare a perpetrare la tradizione del reportage alle generazioni future.
Un compito non semplice: ma che finora è sempre stata portato avanti senza perir colpo.
“Gli infermieri non devono tenere relazioni con le famiglie dei malati, darne notizie, portar fuori senz’ordine lettere, oggetti, ambasciate, saluti: né possono recare agli ammalati alcuna notizia dal di fuori, né oggetti, né stampe, né scritti.”
(Norma di regolamento in un ospedale psichiatrico, citato nel libro Morire di Classe).
Nel 2019 ricorre un anniversario importante e significativo. 40 anni fa, nel 1979, veniva approvata la celebre Legge Basaglia, che metteva per sempre la parola fine al concetto di “manicomio” come era stato inteso fino a quel momento.
E decretava la chiusura e la riconversione di strutture che erano ascrivibili alla categoria “detentiva” e non a quella “curativa/riabilitativa”.
Ma già negli anni precedenti alcuni studi e ricerche avevano
scosso l’opinione pubblica, innestando quel processo che, di lì a poco, avrebbe
messo in discussione l’intera istituzione “manicomiale”.
Emblematico, in questo senso, è stata, 11 anni prima
dell’approvazione della legge una raccolta fotografica curata da Gianni Berengo Gardin e Carla Cerati, con l’importante
contributo dello stesso medico Franco
Basaglia, padre fisico e spirituale della legge che porta il suo nome.
Quell’importantissimo capolavoro di reportage documentario
fotografico porta l’emblematico nome di Morire di Classe, e fu pubblicato
nel 1969.
Le porte dell’Inferno
istituzionalizzato
Questo lavoro, di una durezza visiva ma al contempo di una
sensibilità narrativa unica servì a spalancare le porte di un vero e proprio “Inferno
istituzionalizzato”.
In quegli anni la follia, la malattia mentale, era un fastidio che non doveva essere messo in vista.
Durante il Primo Novecento le aberrazioni mentali potevano
essere, infatti, un campo di studio accademico, buono per qualche disputa
universitaria o per qualche (discutibile) trattato di criminologia.
Nel Secondo Dopoguerra, l’ansia di “normalizzazione” e la
voglia di ricostruzione spingeva le persone e la società ad accentuare ancor di
più questo andazzo, così da poter lavare i panni sporchi, se non in casa,
quantomeno lontano dagli occhi (e dal cuore).
Fu così che per parecchi decenni il manicomio criminale
diventò una sorta di limbo dell’oblio, dove confinare e relegare tutto quanto
non era ascrivibile all’insieme dei “normali”.
Il luogo della
costrizione e della violenza “legale”
E fu così, d’altronde, che l’istituzione divenne prigionia.
E il manicomio diventò la metafora dello Stato che opprime i più deboli.
Franco Basaglia fu
così che traccio quella linea netta che vedeva nel manicomio come classicamente
inteso la proiezione accentuata e iperrealista del rapporto (realmente) malato
fra luogo di cura e società esterna.
La costrizione dei malati e la prevaricazione che soggetti
inermi e indifesi subivano dai loro controllori (che talora diventavano
aguzzini) riassumeva in toto la violenza che fuori da quelle mura veniva (e
viene ancora) esercitata da chi il Potere lo detiene.
Per Basaglia, infatti, il fulcro rimaneva quello di un
Sistema Sociale disinteressato al recupero di chi è stato escluso, che limitava
il raggio dell’azione umanitaria “all’interno
di un’istituzione apparentemente non violenta”.
Un “non luogo” per “non
umani”
Una sorta di “non luogo”, ecco cos’era il manicomio. Dove l’essere
umano smetteva di essere tale e diventava un oggetto. Come in una sorta di
campo di prigionia che rimembrava altro dolore, altre sofferenze, altre
tragedie di solo qualche decennio prima.
Tanto che, tra le fotografie di Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin sono stati inseriti contestualmente dei frammenti testuali che spaziano sul materiale della “follia” nell’età moderna.
I brani di Luigi Pirandello,
Michel Foucault, Erwin Goffman e Bertolt Brecht rappresentano la naturale (e crudele) didascalia
delle fotografie che mettono in mostra l’abbandono, la solitudine e il degrado
di uomini soli. Simili sempre più a cose e non a persone.
Ben si sposa, purtroppo, con la spersonalizzazione che nei
campi di sterminio i Nazisti applicarono alle proprie vittime, come fa eco la
tremenda citazione tratta da “Se questo è
un uomo” di Primo Levi:
“Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso.”
Il potere sociale delle
immagini
Il vaso di Pandora, a questo punto, era stato scoperchiato.
A questo punto nascondere la polvere sotto il tappeto non era più una soluzione
praticabile.
Lo stesso Basaglia aveva scritto già in quel periodo un
libro molto famoso pubblicato nel 1968, L’istituzione
negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico.
Ma l’immagine diede qualcosa in più, fu forse l’ariete che
consentì di mettere di fronte agli occhi di tutti l’orrore di quel mondo
sommerso, chiuso irrimediabilmente da un lucchetto e da una camicia di forza.
E furono anche quelle fotografie scattate da Berengo Gardin
e dalla Cerati a dare adito a quella lotta medica, e in seguito politica, che
favorì il processo di riforma degli ospedali psichiatrici in Italia (e
successivamente in altri paesi) per mezzo della legge 180/1978 (la già citata “Legge Basaglia“).
Non è certo facile esaurire in questo breve articolo l’importanza
di questo libro fotografico, forse uno dei più significativi di tutta la storia
fotografica italiana e mondiale.
Forse basterebbe prendere in mano questo pezzo di Storia e
dare un’occhiata a queste sofferte e dolorose pagine.
Se tutto questo non basterà a toccare il cuore e l’animo del
lettore, sarà la paura inculcata dalla normalità ad averla vinta.
E in tempi bui e miserrimi come questi, purtroppo, il rischio di una “normale indifferenza” rimane purtroppo alto.
Il 7 Aprile 2019 è stata una di quelle classiche date che, per i corsisti, i soci e tutto lo staff di ImagoZero Catania, difficilmente potrà essere cancellata dalla memoria.
In un trittico che definire delle meraviglie sarebbe dire
poco, l’allegra compagnia di insegnanti e di aspiranti fotografi hanno potuto
apprezzare tre stupendi momenti per una giornata assolutamente indimenticabile.
Tre momenti vissuti nella suggestiva cornice di Palermo che, qui di seguito, vogliamo a grandi linee descrivere. Così da poter ipoteticamente comunicare ai lettori quali meraviglie hanno potuto guardare oggi i nostri increduli ed emozionati occhi.
La mostra di Ferdinando Scianna
Ad aprire le danze è stata la mostra dal titolo “Viaggio Racconto Memoria” dedicata ad
uno dei fotografi più celebri ancora viventi, che tutto il mondo ci invidia: Ferdinando Scianna.
Il fotografo isolano – reporter di fama e noto membro della Magnum Photos – ci illustra con il suo
eccezionale bianco e nero la propria concezione del medium fotografico: uno sguardo a 360° sul mondo che ci circonda.
Ed è questo viaggiare incessante il fulcro della sua opera:
un viaggio che è più un iter della mente che fisico.
La mostra, infatti, è sapientemente divisa per vere e
proprie mappe concettuali.
Si parte da un viaggio
nella memoria, alla ricerca di un’isola
che non c’è (più) come quella Sicilia perduta, quasi dimenticata in ricordi
che hanno un gusto dolce-amaro. All’insegna di una melanconia per una
tradizione che sta scomparendo, sommersa da un eterno presentismo.
Per poi passare verso altri
mondi: come ne sono testimonianza i suoi viaggi negli Stati Uniti, metà da lui particolarmente gradite perché fornisce
spicchi di realtà che tutti conosciamo, ma che non smettono mai di
sorprenderci.
O il suo viaggio verso il “mondo offeso”, citando Vittorini:
un viaggio nella sofferenza, nella fame e nei patimenti di luoghi e persone
feriti da guerre, epidemie e migrazioni di massa.
Una via crucis nei meandri del dolore che attraversa nazioni come il Libano, l’India, l’Etiopia fino ad arrivare al dramma dei profughialbanesi negli anni ’90.
O ancora il suo rapporto di simbiosi con le ombre: uno strumento per Scianna
indispensabile per scrivere con la luce. Ma anche per disegnare ed evidenziare
concetti ed emozioni con la sua mano fotografica, diretto prolungamento della
sua anima.
E, infine – ma tante altre sotto-trame non mancherebbero – il suo rapporto con gli altri artisti e con
il mondo dello spettacolo, finemente narrato dalla bellezza dei suoi ritratti.
Si va dall’affresco “familiare” all’amico e compagno di mille viaggi, Leonardo Sciascia; agli scatti dedicati ad altri maestri della fotografia mondiale come Henri Cartier-Bresson e Jacques Henri Lartigue; per chiudere con l’incontro folgorante con la modella Marpessa, che verrà magistralmente incastonata come una gemma tra le gemme, tra le bellezze e le strade siciliane. All’insegna, in parole povere, di un concetto di “moda” scarno ed essenziale, totalmente privo di patina.
La mostra, in conclusione, è uno spettacolo visivo in cui è
concentrata una parte significativa di un’attività prolifica, incessante e mai
doma da decenni.
E dalla voce “in carne ed ossa” di Scianna siamo guidati
dall’inizio alla fine. Le audio-guide sono come Virgilio e Beatrice per Dante: una voce che ci porta dai
meandri dell’Inferno in Terra a mirar le “stelle”. Che queste stelle siano
quelle dello spettacolo e non astri celesti, beh, poco importa.
La mostra “Viaggio Racconto Memoria” è esposta al GAM – Galleria d’arte Moderna “Empedocle-Restivo” di Palermo, fino al 28 luglio 2019.
La mostra di Franco Zecchin
Il secondo appuntamento di giornata, non meno emozionalmente
intenso, si è svolto (come anche il terzo) al Centro Internazionale di Fotografia, dove la troupe
dell’associazione ha avuto il piacere di vedere la mostra, dal titolo “Continente Sicilia” dedicata al fotografo
Franco Zecchin.
Fotoreporter che della Sicilia ha fatto il suo vero e
proprio “Teatro di guerra”.
Al centro dei suoi scatti, infatti, ci sono le persone che,
nel bene o nel male, hanno segnato la storia recente della nostra Isola, bella
e maledetta.
Fotografie che spesso “si macchiano” del sangue dei
vincitori e dei vinti, a descrivere quel conflitto armato scatenato dalle Mafie
senza lasciare nulla all’immaginazione: col coraggio e con la durezza di un
pugno allo stomaco veniamo trascinati tra le scene degli omicidi “eccellenti”
degli uomini di Stato e della “gente di rispetto”.
Intervallando questo bagaglio di orrori con scene di vita
quotidiana, manifestazioni di protesta contro le basi missilistiche, feste
paesane e angoli di ospedali psichiatrici. Il tutto in nome della pura e
semplice verità.
Questa verità che si trova, si, annaspando tra i corpi senza
vita e tra le macerie degli attentati dinamitardi: senza però dimenticare
questi martiri come erano da vivi.
Perché il messaggio è chiaro: Giovanni Falcone, Paolo
Borsellino, Rocco Chinnici e Cesare Terranova non sono dei santini
da esibire quando serve.
La mostra “Continente
Sicilia” di Franco Zecchin è
visitabile fino al 16 Giugno
all’interno dei locali del Centro
Internazionale di Fotografia di Palermo.
L’incontro con Letizia Battaglia
Infine l’episodio conclusivo – ma di certo non meno
importante della giornata – è stato dedicato all’incontro con la direttrice del
Centro Internazionale di Fotografia, vale a dire la fotografa Letizia Battaglia.
Una donna che, dall’alto dei suoi 84 anni, ha le idee
assolutamente chiare sul mondo della fotografia e sulla lezione da impartire ad
amatori ed aspiranti professionisti, che gli attenti interlocutori hanno assorbito
dalla prima all’ultima parola.
La fotografa ha parlato degli anni bui della Sicilia preda
della morsa mafiosa, quando con estremo coraggio sfidò l’omertà della città,
grazie all’esibizione pubblica delle immagini dei morti ammazzati per strada. Un atto di coraggio che non esiterebbe
a rifare, se necessario, anche alla sua veneranda età.
Ha descritto anche le sue esperienze professionali: citando
come uno dei suoi punti di riferimento il fotografo ceco Josef Koudelka.
Un artista che ha fatto della macchina fotografica il suo
credo di vita, la sua missione: senza scendere mai a nessun compromesso con il
mercato e con gli editori, rinnegando il profitto economico per la piena tutela
della sua libertà espressiva.
E la Battaglia condivide questo spirito anticonformista: a
tutela di una concezione dell’artista che possa essere premiato per i propri
meriti, senza divenir mero pasto per i salotti borghesi dell’arte fine a sé
stessa.
Infine, ha esortato i giovani amatori a tirare fuori dai
propri scatti ciò che realmente si ha dentro: per una fotografia che scuota
veramente, che riesca a sconfiggere definitivamente la cecità e l’anestesia
visiva alle immagini delle quali siamo quotidianamente vittime.
Concludiamo rispondendo con entusiasmo a questa esortazione:
ribadendo che l’associazione ImagoZero non potrà facilmente
dimenticare questa giornata.
Così tanto piena e allo stesso tempo così tanto bella da
essere volata via come il più fugace degli attimi.
Breve e intensa come il più riuscito degli scatti.
Reportage,cinema e fotografia non sono compartimenti stagni. Anzi, spesso e volentieri sono ambiti che si intrecciano in modo molto proficuo, generando un valore aggiunto ad opere d’arte che già singolarmente hanno un contenuto formale ed estetico molto elevato.
Non sono rari i casi di grandi registi che hanno avuto
rapporti proficui con più media:
basti pensare ai fortunati esordi fotografici di Stanley Kubrick.
O il talento spiccato di Wim Wenders nel barcamenarsi in maniera autorevole tra un’arte e
l’altra (basti pensare a quel capolavoro assoluto di “cinema sulla fotografia”
che è Il Sale della Terra, dedicato
al grande Sebastião Salgado).
Uno di questi grandi artisti, figli allo stesso modo di
macchina fotografica e cinepresa, ci ha purtroppo recentemente lasciati,
esattamente il 29 marzo 2019.
Parliamo della regista, e fotografa francese Agnès Varda.
Un’abile documentarista
La Varda era soprattutto nota nel campo del Cinema, spesso
per essere stata accostata alla Nouvelle Vague, uno dei movimenti
cinematografici più conosciuti della cinematografia francese.
È stata soprattutto un’abile documentarista e autrice di
film spesso a metà tra finzione e realtà: ha girato all’incirca una decina di
pellicole tra lungometraggi, corti e documentari veri e propri.
Nel 2018, tributo a una grande carriera, le è stato anche
assegnato l’Oscar alla carriera.
La passione per la fotografia
Un po’ meno nota, ma di certo non di inferiore qualità, è
stata la sua attività di fotografa
in giro per il mondo.
Lo stesso sguardo rigorosamente analitico che troviamo nella
sua opera documentaristica è sicuramente riscontrabile nella sua opera
fotografica.
Nei suoi viaggi in terre spesso molto lontane, sia fisicamente che mentalmente distanti dal nostro Occidente, Agnès Varda immortala persone e situazioni senza compassione, patimento o enfasi non necessarie.
Inquadrando, nell’angolo di mondo congelato dai suoi scatti,
soltanto attimi di realtà, vita vissuta.
Come nei suoi reportage ambientati nella Cina maoista o nella Cuba di Castro.
Nel primo caso la fotografa si recò in Estremo Oriente nel 1957, all’interno di una vera e propria
“missione” diplomatica, assieme ad alcuni ambasciatori francesi, per
documentare la vita nel paese.
Sono scatti che rappresentano la gente comune, la vita
quotidiana, le famiglie e gli operai di una società di certo in fermento, alle
prese con un’industrializzazione (forzata) che tristemente di lì a poco avrebbe
dato amari frutti.
La Varda, molto lontana dall’operare una mera mitizzazione
del regime, lascia che sia la macchina fotografica a descrivere situazioni e
cose al posto delle parole.
Lo stesso discorso vale per il suo viaggio personale a Cuba, nel 1963, dove la vitalità del popolo ispanico, fresco di rivoluzione
ed in pieno scontro aperto con i vicini a stelle e strisce, colpisce il suo
occhio.
E dai suoi occhi questo eterno movimento di persone in cerca
di libertà finirà per impressionarsi nei suoi scatti: i giovani, la musica e le
lotte per l’uguaglianza emergono in una società che, nel suo essere
contraddittoria, genera un’interessante soggetto da mettere a fuoco.
Anche qui la Varda tenta di non lasciarsi abbagliare dal
clamore mediatico sorto attorno alla giovane repubblica: più che le pose di
Castro le interessa guardare il popolo, la gente.
Fare il ritratto ad una società, quella degli anni ’60, che
sta per cambiare in ogni angolo del pianeta.
Un legame indissolubile
Anche quando deciderà di dare maggiore propensione alla sua attività cinematografica, Agnès Varda sarà sempre legata in modo indissolubile alla fotografia.
Un tributo al dagherrotipo che la cineasta non dimenticherà
di citare neanche nei suoi film.
Vogliamo citare, semplicemente come esempio, in una sorta di procedimento ad anello, il suo primo e il suo ultimo film.
Ne La pointe courte (1955), interpretato da un giovanissimo Philippe Noiret, un film a metà tra lirismo alla Jean Vigo e neo-realismo italiano, troviamo alcuni frame che sono montati come se fossero dei veri e propri scatti fotografici.
Immagini in movimento che però scolpiscono molto bene
l’istante singolo, la fatuità del momento. Quasi a intervallare e accavallarsi
con i “frammenti di un discorso amoroso”
(citiamo Barthes) rimasto totalmente
inconcluso ed inespresso per i protagonisti della pellicola.
Nel suo ultimo lungometraggio, il documentario Visages, Villages (2018) la regista si
lascia trascinare, invece, in un viaggio on
the road su e giù per la Francia col fotografo francese JR.
Ed è qui che questi due girovaghi che hanno sbarcato il
lunario (JR è un noto artista che utilizza come sua peculiarità il collage fotografico) entreranno nelle
vite delle persone comuni, raccogliendo impressioni, sogni e speranze infrante
di una provincia spesso ignorata ma che non muore mai per sempre.
Un vero e proprio testamento spirituale, che acquisisce un
significato ulteriormente stratificato dall’emblematica visita alla tomba di Henri Cartier-Bresson: un infinito
tendersi a quell’ “istante decisivo”
che, probabilmente, raccoglie in maniera intimistica la sua (e la nostra)
esistenza.