Morire di Classe: uno sguardo sull’Inferno istituzionalizzato

“Gli infermieri non devono tenere relazioni con le famiglie dei malati, darne notizie, portar fuori senz’ordine lettere, oggetti, ambasciate, saluti: né possono recare agli ammalati alcuna notizia dal di fuori, né oggetti, né stampe, né scritti.”

(Norma di regolamento in un ospedale psichiatrico, citato nel libro Morire di Classe).

Nel 2019 ricorre un anniversario importante e significativo. 40 anni fa, nel 1979, veniva approvata la celebre Legge Basaglia, che metteva per sempre la parola fine al concetto di “manicomio” come era stato inteso fino a quel momento.

E decretava la chiusura e la riconversione di strutture che erano ascrivibili alla categoria “detentiva” e non a quella “curativa/riabilitativa”.

Ma già negli anni precedenti alcuni studi e ricerche avevano scosso l’opinione pubblica, innestando quel processo che, di lì a poco, avrebbe messo in discussione l’intera istituzione “manicomiale”.

Emblematico, in questo senso, è stata, 11 anni prima dell’approvazione della legge una raccolta fotografica curata da Gianni Berengo Gardin e Carla Cerati, con l’importante contributo dello stesso medico Franco Basaglia, padre fisico e spirituale della legge che porta il suo nome.

Quell’importantissimo capolavoro di reportage documentario fotografico porta l’emblematico nome di Morire di Classe, e fu pubblicato nel 1969.

Le porte dell’Inferno istituzionalizzato

Questo lavoro, di una durezza visiva ma al contempo di una sensibilità narrativa unica servì a spalancare le porte di un vero e proprio “Inferno istituzionalizzato”.

In quegli anni la follia, la malattia mentale, era un fastidio che non doveva essere messo in vista.

Durante il Primo Novecento le aberrazioni mentali potevano essere, infatti, un campo di studio accademico, buono per qualche disputa universitaria o per qualche (discutibile) trattato di criminologia.

Nel Secondo Dopoguerra, l’ansia di “normalizzazione” e la voglia di ricostruzione spingeva le persone e la società ad accentuare ancor di più questo andazzo, così da poter lavare i panni sporchi, se non in casa, quantomeno lontano dagli occhi (e dal cuore).

Fu così che per parecchi decenni il manicomio criminale diventò una sorta di limbo dell’oblio, dove confinare e relegare tutto quanto non era ascrivibile all’insieme dei “normali”.

Il luogo della costrizione e della violenza “legale”

E fu così, d’altronde, che l’istituzione divenne prigionia. E il manicomio diventò la metafora dello Stato che opprime i più deboli.

Franco Basaglia fu così che traccio quella linea netta che vedeva nel manicomio come classicamente inteso la proiezione accentuata e iperrealista del rapporto (realmente) malato fra luogo di cura e società esterna.

La costrizione dei malati e la prevaricazione che soggetti inermi e indifesi subivano dai loro controllori (che talora diventavano aguzzini) riassumeva in toto la violenza che fuori da quelle mura veniva (e viene ancora) esercitata da chi il Potere lo detiene.

Per Basaglia, infatti, il fulcro rimaneva quello di un Sistema Sociale disinteressato al recupero di chi è stato escluso, che limitava il raggio dell’azione umanitaria “all’interno di un’istituzione apparentemente non violenta”.

Un “non luogo” per “non umani”

Una sorta di “non luogo”, ecco cos’era il manicomio. Dove l’essere umano smetteva di essere tale e diventava un oggetto. Come in una sorta di campo di prigionia che rimembrava altro dolore, altre sofferenze, altre tragedie di solo qualche decennio prima.

Tanto che, tra le fotografie di Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin sono stati inseriti contestualmente dei frammenti testuali che spaziano sul materiale della “follia” nell’età moderna.

I brani di Luigi Pirandello, Michel Foucault, Erwin Goffman e Bertolt Brecht rappresentano la naturale (e crudele) didascalia delle fotografie che mettono in mostra l’abbandono, la solitudine e il degrado di uomini soli. Simili sempre più a cose e non a persone.

Ben si sposa, purtroppo, con la spersonalizzazione che nei campi di sterminio i Nazisti applicarono alle proprie vittime, come fa eco la tremenda citazione tratta da “Se questo è un uomo” di Primo Levi:

“Si immagini ora un uomo a cui, insieme con le persone amate, vengano tolti la sua casa, le sue abitudini, i suoi abiti, tutto infine, letteralmente tutto quanto possiede: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, dimentico di dignità e discernimento, poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso.”

Il potere sociale delle immagini

Il vaso di Pandora, a questo punto, era stato scoperchiato. A questo punto nascondere la polvere sotto il tappeto non era più una soluzione praticabile.

Lo stesso Basaglia aveva scritto già in quel periodo un libro molto famoso pubblicato nel 1968, L’istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico.

Ma l’immagine diede qualcosa in più, fu forse l’ariete che consentì di mettere di fronte agli occhi di tutti l’orrore di quel mondo sommerso, chiuso irrimediabilmente da un lucchetto e da una camicia di forza.

E furono anche quelle fotografie scattate da Berengo Gardin e dalla Cerati a dare adito a quella lotta medica, e in seguito politica, che favorì il processo di riforma degli ospedali psichiatrici in Italia (e successivamente in altri paesi) per mezzo della legge 180/1978 (la già citata “Legge Basaglia“).

Non è certo facile esaurire in questo breve articolo l’importanza di questo libro fotografico, forse uno dei più significativi di tutta la storia fotografica italiana e mondiale.

Forse basterebbe prendere in mano questo pezzo di Storia e dare un’occhiata a queste sofferte e dolorose pagine.

Se tutto questo non basterà a toccare il cuore e l’animo del lettore, sarà la paura inculcata dalla normalità ad averla vinta.

E in tempi bui e miserrimi come questi, purtroppo, il rischio di una “normale indifferenza” rimane purtroppo alto.

Simone Bellitto